Il termine fast fashion venne coniato il 31 dicembre 1989 dalla giornalista Anne Marie Schirò, per indicare la propensione alla moda veloce che negli anni 80 stava conquistando New York.
Ma quando nasce il fast fashion e perché finalmente si adopera questo termine nella sua accezione negativa ?
Se già nel lontano 800 alcune fabbriche producevano capi economici, i veri precursori della “moda veloce” furono in ordine cronologico : H&M che aprì il suo primo negozio nella città di Västerås nel 1947 , seguirono negli anni 60 la britannica Topshop e l’irlandese Primark, mentre Zara apri il suo primo store a La Coruñ nel 1975.
Se in principio il fast fashion venne accolto come un fenomeno positivo di democratizzazione della moda volto a rendere universalmente accessibili trend in precedenza all’appannaggio di pochi abbienti, le debolezze di un’infrastruttura che tentava di realizzare un’utopia vennero presto a galla. I ritmi e i costi di produzione, di anno in anno più rapidi, erano sostenibili solo producendo in paesi dove il costo del lavoro è basso ed è più facile che i lavoratori siano sfruttati. Negli ultimi vent’anni spendere poco per vestirsi alla moda è diventata usanza comune, ma solo di recente è emersa tutta la problematicità della moda a basso costo.
Disporre di un capo alla moda acquistabile velocemente dal proprio smartphone è fattibile, ma il costo è elevatissimo ed è a carico della classe operaia rappresentata da donne, uomini e bambini , espressione drammatica della schiavitù moderna, per non parlare poi dell’immane danno ambientale che tratteremo a parte.
La pratica dello sfruttamento della classe operaia nel settore della moda in realtà ha iniziato purtroppo a diffondersi proprio in concomitanza con l’apertura sempre più frenetica dei grandi mega-store e in epoca recente dei market places.
I colossi del fast fashion per far fronte alle esigenze compulsive di acquisto di capi a basso costo, che ormai riguardava anche le persone abbienti, dovettero adottare strategia tendenti a garantire grandi quantità e disponibilità immediate.
La delocalizzazione iniziò a prender forma quando i marchi del fast fashion, affidarono la produzione di grandi commesse ad aziende appaltatrici ubicate nei Paesi in via di sviluppo: il costo umano fu ( ed è ) incalcolabile. Tante donne, uomini e bambini vennero di fatto prelevati dalle loro abitazioni per essere condotti nelle fabbriche dove lavorando anche 20 ore al giorno in locali fatiscenti, oltre a percepire una “retribuzione ” da fame, venivano pure privati del loro diritto principale: quello di condurre un’esistenza libera e dignitosa. Si parlò a lungo del problema anche dopo il crollo, nell’aprile 2013, del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, un palazzo di nove piani con moltissimi laboratori di manifattura tessile, in cui morirono 1.129 persone.
Non dobbiamo affatto illuderci che questo sistema di sfruttamento dei lavoratori non ci riguardi: infatti, di recente le modalità di assunzione, le condizioni “contrattuali” che fino al decennio scorso erano tipiche dei soliti e noti Paesi, iniziarono a essere importate anche qua in Italia: tante, troppe persone, a volte rappresentati da donne e uomini in età giovanissima, sono vittime di un sistema – quello del fast fashion- che in nome del dio profitto, oltre a retribuire i lavoratori con paghe irrisorie a fronte di una giornata lavorativa interminabile, li espone attraverso la violazione della normativa in termini di sicurezza sul lavoro a danni personali irreparabili.
Quindi prima di procedere all’acquisto “dell’offertona del giorno” fermiamoci un attimo a riflettere sulle conseguenze che quel click finale potrebbe avere nei riguardi magari di una persona a noi cara.